29. Il giudizio finale - Zona Pastorale Borgo Panigale e Lungo Reno | Arcidiocesi di Bologna

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29. Il giudizio finale

La zona pastorale > Ambito catechesi
Mt. 25

31 Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria.
32 E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri,
33 e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra.
34 Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo.
35 Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato,
36 nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi.
37 Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere?
38 Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito?
39 E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?
40 Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me.
41 Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli.
42 Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere;
43 ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato.
44 Anch'essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito?
45 Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me.
46 E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna".

Questo discorso di Gesù, che è riportato solamente da Matteo nel suo vangelo, in apparenza non ha nessuna possibile incertezza sulla sua interpretazione che appare chiaramente confermata dal confronto tra le due possibilità: “ogni volta che avete fatto” e “ogni volta che non avete fatto”, con le due differenti estreme conseguenze: “Venite benedetti” e “Via, lontano da me, maledetti”.

Quindi si dovrebbe ritenere certo che la fraternità cristiana si manifesti nello sfamare, nel dissetare, nell’accogliere, nel rivestire, nel curare e nell’assistere il prossimo.

Tutto questo in sostanza riguarda il corpo del prossimo, ovvero le circostanze materiali della sua vita, ma finisce per avere conseguenze assolute anche in campo spirituale perché gli inadempienti vengono condannati, anima e corpo, al “supplizio eterno”.

Colpisce anche che quale elemento di giudizio del Figlio dell’uomo non ci sia nessun riferimento al rapporto spirituale tra il suo discepolo e il Padre, quasi che questo aspetto non abbia un peso importante e sia oscurato dal rapporto concreto tra le persone umane.

Anche un’altra considerazione può essere avanzata: veramente la nostra seria premura verso il prossimo è manifestata nella cura delle sue esigenze umane, trascurando le sue esigenze spirituali?

Banalizzando un pochino una realtà fondamentale ci si può chiedere: la mia salvezza dipende dalla salute del mio corpo e dal mio stato sociale o psicologico, oppure dalla “salute” dell’anima? Se qualcuno mi vuole veramente aiutare si deve preoccupare del mio stato umano materiale e sociale, trascurando del tutto il mio stato spirituale?

Certamente non si può pensare di prospettare aiuti spirituali a chi sia morente per fame o sete ed occorre provvedervi, ma non sembra questa la situazione indicata da Gesù, che elenca in modo equivalente anche altri aspetti che però non hanno le stesse caratteristiche di rischio vitale.

La lettera di Giacomo è molto chiara, la fede ha bisogno di opere concrete per manifestare le sue caratteristiche, anzi è proprio agendo personalmente la carità cristiana per quanto ci sia possibile fare che la nostra fede in Gesù Cristo trova in concreto gli elementi per rafforzarsi e radicarsi in noi, trasformandoci man mano in suoi consapevoli e generosi strumenti di bene.

Tuttavia non si può nemmeno dimenticare che le opere di carità o di misericordia che la Chiesa ci insegna come necessarie da praticare siano divise in due campi, quello corporale e quello spirituale, ambedue ambiti necessari per collaborare alla salvezza del prossimo, che per il cristiano è un dovere.

Che sia alquanto illogico, e anche inumano, prospettare pazienza e beatitudine eterna a chi soffre duramente senza alleviare la sua situazione è evidente, ma lo è anche pensare e agire come se tutto ciò che serve verso quella persona fosse quindi stato assolto solo così, decidendo di lasciare ad un momento futuro indeterminato il cercare di consolare o orientare anche spiritualmente chi soffre; soprattutto considerando che nei momenti neri della vita è frequente nelle persone dubitare della fede e disperare dell’aiuto di Dio e, quindi, c’è una concreta possibilità che anche per quello un aiuto sia necessario. Penso qui ai tanti malati che ho visitato, e tra quelli ad un caso in particolare in cui un futuro realmente non esisteva, perché l’ammalato in apparenza assolutamente non grave ma che manifestava una grande paura di morire, morì veramente la notte seguente.

Provo a fare un tentativo per individuare una via d’uscita a questi interrogativi.

Che il Figlio dell’uomo non elenchi l’amore al Padre tra le opere discriminanti la salvezza si può pensare sia dovuto alla natura stessa dell’azione di carità.

Chi ama caritatevolmente lo fa senza alcun tornaconto, generosamente, come azione di restituzione al Padre attraverso il prossimo dell’amore con cui Lui  l’ha amato per primo. (Vedi 1 Gv 4, 19-21)

Quindi l’amore al Padre resta un atto fondamentale e necessario, ma è previo al nostro amore del prossimo che ne diviene un’espressione implicita.

Però penso ci sia ancora altro su cui riflettere.

Il Figlio dell’uomo, quando indica queste azioni volte allo stato concreto del prossimo, si riferisce solo al loro significato diretto o allude anche ad altro che, agendo nella carità, il discepolo deve comprendere e poi nel caso anche disporsi a provvedere?

Come non leggere “fame” e “sete” nella stessa ottica delle beatitudini: “Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”, ove il termine “giustizia” significa “l’azione giusta di Dio” o “secondo la logica di Dio” che appunto è la “carità”, quell’amore che Dio ha promesso all’umanità ed è una promessa che intende mantenere per senso di giustizia. Per non incorrere in appropriazione indebita chi opera la carità verso il fratello dovrebbe sempre farlo espressamente nel nome di Dio!

Il forestiero da ospitare e vestire non può essere inteso correttamente anche chi non fa parte della Chiesa e viene aiutato con la catechesi a scoprire consapevolmente quella fede che Dio stesso ha posto nel suo cuore alla nascita tra le virtù teologali, e portarlo sino a desiderare d’indossare la veste bianca del battesimo? E altrettanto non vale per quei tanti attorno a noi in cui apparentemente l’acqua del battesimo si è “asciugata” e ora vagano lontano dalla Chiesa?   

La malattia e il carcere non possono essere intesi anche come il peccato e i vizi che ammalano e imprigionano la persona compromettendone la vita non solo spiritualmente ma anche fisicamente (Vedi Rm 6, 12-23), dunque reagendo col fraterno ammonimento dei peccatori, insegnando a chi non sa, consolando gli afflitti, cioè con tre opere di misericordia spirituale, che se non fossero compiute in piena carità, in nome di Dio con e per la sua misericordia, non solo non sarebbero più un merito ma diverrebbero un demerito!
Così ragionando, allora, le azioni caritatevoli verso la persona del prossimo sono poste sempre in relazione esplicita alla sua integra realtà, cioè di essere composto di anima e corpo ed amato da Dio.

Il discepolo del Figlio dell’uomo dovrà allora sforzarsi d’essere un frequentatore di questa “scuola integrale di carità”, agendo sempre contemporaneamente sia per il bene materiale che spirituale del prossimo.
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